Il contatto giusto, il curriculum inviato all’academy adatta, l’annuncio di lavoro appropriato.
Sono diversi i modi per cui un allenatore può trovarsi ad allenare giovani talenti all’estero. Ma a volte alla vita piace metterci lo zampino, ed ecco che ti ritrovi ad allenare a 8000 kilometri da casa a causa di… una storia d’amore…
Questa è la storia di Luca Laganà, quarantunenne di Biella che dal 2017 vive, lavora ed allena in Florida, ad 80 kilometri da Miami.
Luca, come sei finito ad allenare in Florida?
La mia è una storia un po’ atipica.
In America mi sono trasferito per raggiungere la mia compagna, una ragazza italiana con la quale ci eravamo conosciuti a Legnano qualche anno fa.
Ai tempi lei viveva già negli states, ma per motivi personali rientrava saltuariamente in Lombardia. In uno di questi viaggi ci siamo conosciuti e piaciuti ed ho preso la grande decisione: trasferirmi in Florida, dove lei abitava.
In Italia non avevo mai allenato prima, avevo giocato nelle giovanili del Piacenza, Allievi e Primavera, avevo esordito in C2 col Biella e poi per problemi familiari ho militato tra Eccellenza e Promozione ma quella che ho iniziato negli USA è stata la mia prima vera esperienza da allenatore.

Una volta negli states da dove è partita la tua voglia di allenare?
Già da quando ancora giocavo in Italia cercavo di osservare il calcio da una prospettiva più “distaccata” rispetto a quella del giocatore. Arrivavo al campo prima, chiedevo, mi informavo, cercavo insomma di capire. Una volta arrivato in America ho deciso di buttarmi a capofitto in questa mission. Considera che all’ inizio conoscevo poco o nulla di inglese, non conoscevo nessuno nell’ambiente, vi erano letteralmente zero opportunità. Inoltre non era nemmeno così scontata la trafila per ottenere il visto. Insomma, mi sono buttato.
Come sei entrato in contatto con una academy del luogo?
Come detto non conoscevo nessuno. Così sono partito da una ricerca in Internet, cercando di scovare academy e campi da calcio nella zona. Entrai in contatto con una società: l’AC Delray. Praticamente all’inizio fu mia moglie a mediare tra me ed il direttore, in quanto appunto non spiaccicavo una parola. L’accordo era che sarei stato valutato tramite due allenamenti di prova: uno con una squadra di U10 ed uno con una Under 17. Fu un’esperienza traumatica per la lingua da campo, ma molto divertente per la parte diciamo più propriamente legata all’allenamento. Basai il test sul cercare di mostrare. Venni preso, ad una condizione: entro l’inizio della stagione avrei dovuto migliorare il mio inglese…
Così inizia il tuo percorso nel mondo calcistico giovanile statunitense…
Innanzitutto ho cercato di istruirmi, allineandomi al percorso formativo americano. Ho conseguito i primi due livelli di certificazione: la licenza E e la D, che fondamentalmente permettono al coach di approcciare con l’attività di base. A dicembre inizierò il terzo livello, il C.
Da un punto di vista sportivo nell’agosto del 2017 ho iniziato un triennio con un gruppo di U9, che ho proseguito fino ad ora, portandoli fino all’U11: loro sono stati i miei veri maestri di Inglese.

Come vengono costruite le squadre delle academy in Florida?
Ogni anno vengono svolti dei provini in cui vengono selezionati i migliori, con una visione tarata quindi sul professionismo. L’allenatore ed il dirigente valutano i ragazzi, per dirti l’anno scorso su 30 ragazzini che provarono ne selezionammo 11. Qui letteralmente se un ragazzino non è bravo sta a casa… nei giovani l’approccio allo sport può quindi essere stressante, con un alto grado di competitività.
Com’ è strutturata l’academy?
Da noi vi sono due tipi di proposte.
Quei ragazzini che non vogliono prendersi l’impegno di giocare le trasferte o avere un impegno eccessivo scelgono la “recreational”. In questo caso si allenano solo una volta a settimana.
Nelle squadre “travel team” invece i ragazzi sono selezionati, svolgono 2-3 allenamenti a settimana ed affrontano gare un po’ in tutta la Florida.
L’academy come molte società americane è di puro settore giovanile.
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Com’ è organizzato in tal senso il calcio statunitense?
Il ragazzo che vuole arrivare in prima squadra si impegna per ottenere una borsa di studio che li permetta di frequentare quelle università che offrono tale offerta. Ci sono appunto società di puro settore giovanile o club con solo prime squadre.
In Florida nei giovani vi sono tre livelli: bronze, silver e gold. Sarà l’academy in base alla qualità della propria squadra a scegliere in quale categoria iscrivere il team.
Com’ è organizzata la stagione?
Vi è una early-season che dura da agosto ai primi di ottobre, dove si testano le squadre e si svolgono le selezioni. Da metà ottobre a fine febbraio vi è la regular-season e da fine febbraio a maggio la late- season. Le classifiche sono presenti un po’ in tutte le categorie e dagli U12 vi sono anche i playoff per decidere il titolo nazionale. Insomma, il livello di sfida e competitività è alto.

Com’è il livello dei ragazzi che alleni?
I ragazzi sono dotati di una fisicità importante, con un livello tecnico buono, soprattutto in quei giocatori figli di immigrati sud-americani. Forse manca un po’ di aggressività mentale, di strada, di voglia di arrivare. In questo senso l’alta qualità della vita di questa zona non aiuta i bambini ad avere la fame giusta per arrivare.
Come ti sei posto in tal senso per proporre la tua idea di calcio?
Chiaramente ho dovuti adattarmi alla situazione, caratterizzata da un’elevata multiculturalità. L’approccio ha dovuto considerare le differenze socio-culturali di ogni ragazzino. Una volta partito dalla voglia di valorizzare ogni ragazzo ho cercato di trasmettere le mie idee, come il possesso e l’idea di aggredire in avanti. Questo gruppo negli anni ha vissuto un’evoluzione importante, soprattutto dal punto di vista della personalità e della mentalità. Siamo passati dalla categoria bronze a competere in quella gold, togliendoci delle soddisfazioni importanti.
L’appagamento è stato poi quello di vedere ragazzini che fino ad qualche anno fa erano nel programma “recreational”, che con lavoro, intensità e voglia hanno avuto la possibilità e la qualità di confrontarsi con i “travel”.

Com’ è stato il tuo ambientamento?
Nei miei confronti l’accoglienza è stata bella e calorosa, fin dall’inizio. Tutti mi hanno aiutato. Pur inizialmente con difficoltà comunicative, ho saputo col tempo farmi apprezzare. Magari, è vero, non comunicavo bene, ma piccoli atteggiamenti come l’arrivare presto al campo per preparare l’allenamento, l’andare via molto dopo e l’essere costantemente a disposizione ha contribuito a darmi credibilità qui.
Inoltre l’allenatore italiano negli states nutre grandissima considerazione e rispetto.
Infine ho iniziato anche dei progetti paralleli come lezioni individuali di tecnica e summer camp, insomma mi sono calato completamente nella realtà calcistica locale.
Ora come va con l’inglese?
Pensa che recentemente ho tradotto per un’organizzazione locale un contenuto di metodologia riguardante la fascia d’età U11-U13 dall’inglese all’italiano. Ci ridevo un po’ su, a ripensare al mio livello appena arrivai qui. Il contesto mi ha aiutato a godermi appieno questa esperienza.
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