Di Scolaro Francesco
La passione e l’intraprendenza di allenare fin da giovanissimo, il coraggio di buttarsi nella mischia e di tentare fortuna all’estero, l’amore sconfinato per il viaggio e le sue sfumature. Sono questi gli ingredienti principali della storia di Umberto Fabiano, catanese di nascita ma a pieno titolo cittadino del mondo. L’abbiamo raggiunto per farci raccontare la sua esperienza, dalle origini fino alla sua attuale sistemazione, e per farci spiegare come un allenatore italiano può farcela anche all’estero.
Umberto, come hai iniziato ad allenare?
Quando ho iniziato ero molto giovane: a 17 anni ho subìto un infortunio al ginocchio che ha messo la parola fine alla mia esperienza da calciatore. Una volta appese le scarpette al chiodo, però, ho potuto dare sfogo al desiderio di fare l’allenatore che covavo fin da piccolo. Così mi sono buttato quasi subito, d’istinto. Sono partito dall’Acireale e allo stesso tempo ho fondato una società, con cui siamo partiti dalla terza categoria. Ho continuato a dividermi il tempo fra queste due realtà fino a quando sono partito per iniziare il mio percorso universitario a Milano, prendendo nel frattempo il patentino CONI-FIGC per poter allenare i più giovani.

La tua esperienza da allenatore lontano da casa si inaugura dunque a Milano?
Esatto. Durante i 3-4 anni di studio ho avuto la possibilità di allenare, anche tramite società affiliate, per le scuola calcio di Milan e Inter. Dopodiché ho iniziato un percorso di internship di un anno con diverse squadre in giro per l’Europa, che mi ha dato modo di conoscere realtà molto diverse. In quel periodo viaggiai parecchio: Spagna, Inghilterra, Portogallo, Ungheria, Francia, Olanda, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia. Non restai di certo con le mani in mano.
Come hai proseguito poi per arrivare in Germania, dove alleni attualmente?
Prima di arrivare in Germania il mio percorso ha avuto altre quattro tappe. Inizialmente sono tornato a Catania, la mia città, dove ho conseguito il patentino UEFA B e ho iniziato ad allenare in prima squadra a livello di Prima e Seconda categoria. Poi, tramite la società Challenge Sport, ho avuto la possibilità di andare ad allenare in Canada grazie a un programma che dà la possibilità di allenare ragazzini in diverse società per brevi periodi di tempo. Dopo 4-5 mesi oltreoceano ho fatto ritorno per un’altra breve esperienza di internship in Marocco.
Il ritorno in patria è coinciso con l’ingresso nel settore giovanile del Calcio Catania, che ho lasciato, infine, per seguire la mia ragazza qui in Germania.

E così hai continuato anche in terra tedesca…
Ho iniziato ad allenare l’anno scorso quando ero appena arrivato. La lingua è stata la difficoltà principale all’inizio, ma da un punto di vista tecnico posso dire di aver fatto una buona figura: con il Club Italia Berlin, la mia prima squadra qui in Germania, siamo riusciti a vincere il campionato, anche se poi la mia strada e quella della società si sono divise per delle divergenze di vedute. Ora, senza fare anticipazioni prima dell’ufficialità, sono pronto per una nuova esperienza.
È uscito il mio libro:
L’ALLENATORE NEL DRAGONE:
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Com’è strutturato il calcio dilettantistico in Germania?
Per quanto riguarda la struttura del calcio dilettantistico qui si parte da categorie più basse – equiparabili alla nostra 3ª e 2ª categoria – non direttamente gestite dalla federazione – fino ad arrivare al calcio professionistico. La caratteristica principale è che i campionati, esclusi i professionisti, non sono “nazionali” in senso federale: in Baviera si gioca solo contro squadre bavaresi, in Brandeburgo solo contro squadre del Brandeburgo, e così via. Questo permette di abbattere molti costi di trasporti e incentiva, la fondazione di squadre.
E per quanto riguarda la mentalità e la cultura sportiva?
La differenza con l’Italia sotto questi aspetti è notevole: a partire dalle strutture, nuove e ben equipaggiate, fino alle questioni organizzative. Per fare degli esempi, a memoria non ricordo di aver mai visto un campo in terra o una distinta che non fosse elettronica.
Inoltre qui c’è una maggiore attitudine al rispetto, sia delle regole sia dell’avversario: è una mentalità diversa, più “seria” per molti aspetti, che in Italia dovremmo imparare a guardare con maggior interesse.

Tornando a te pensi che tue esperienze ti abbiano portato a cambiare molto il tuo metodo di allenamento?
“Molto” credo sia un termine eccessivo. Ogni esperienza influenza il lavoro di un allenatore, ma io sono andato all’estero per osservare, non per copiare. Con questo voglio dire che il calcio, bene o male, è quello sport che conosciamo tutti e l’allenamento, di conseguenza, è più o meno simile ovunque. Poi, ovviamente, ci sono modi di fare le cose differenti. Io, per dire, nei miei viaggi ho imparato moltissimo dal punto di vista comunicativo, e credo che questo aspetto sia oggi fondamentale per gli allenatori.
Come metodo di allenamento cerco di insistere sulla tecnica: tutto quello che si può fare con la palla per me è sacro. A ciò cerco di aggiungere il ritmo e la tattica più funzionale alla giocata, anche se il principio che cerco di seguire maggiormente è quello di lasciare libertà in campo: non dirò mai a un mio calciatore “non puntare”.
Cosa consigli a chi vuole provare un’avventura da allenatore all’estero?
La prima cosa è forse anche la più importante, ovvero la conoscenza della lingua. Oltre a ciò penso che sia fondamentale, come dicevo poc’anzi, portare sempre avanti le proprie idee. Questo non vuol dire non ascoltare, anzi: è giusto prendere anche da chi può insegnare poco. Però con con voglia di imparare, non con quella di snaturarsi. E soprattutto con un atteggiamento costruttivo e senza presunzione.
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